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IMPIEGO PUBBLICO – DEMANSIONAMENTO DEL DIPENDENTE COMUNALE

La Cassazione, nel giudizio promosso da un Comune avverso la sentenza di merito che aveva ridotto la
somma di condanna relativa a titolo risarcitorio per l’illegittimo demansionamento dalla lavoratrice.

Ribadisce l’orientamento secondo cui quando il lavoratore allega un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 cod. civ., è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali oppure, in base all’art. 1218 cod. civ., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, con regola che vale anche ove la questione riguardi il pubblico impiego e sia affrontata con riferimento all’art. 52 d.lgs. 165/2001 . Altresì, nel ricorso incidentale la lavoratrice deduce la violazione degli artt. 10-91 cod. proc. civ. e del d.m. n. 55/14, in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.

La Cassazione a tale proposito ribadisce che solo quando la domanda sia accolta, il valore della causa ai fini della liquidazione delle spese deve essere pari alla somma attribuita dal giudice; diversamente, quando la domanda viene rigettata, il suddetto valore deve essere pari alla somma infondatamente richiesta, ossia al c.d. principio del disputatum mentre, per il giudizio di secondo grado, si ha riguardo alla sola somma che ha formato oggetto di impugnazione. Per le liquidazioni effettuate ai sensi del d.m. n. 55/2014, non trova fondamento normativo un vincolo alla determinazione secondo i valori medi ivi indicati, dovendo il giudice solo quantificare il compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe, a loro volta derogabili con apposita motivazione.

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